Terremoti ed eruzioni rappresentano
le manifestazioni più evidenti della dinamica in atto all’interno
della Terra, testimoniando l’esistenza di settori litosferici nei quali
si va accumulando un’enorme quantità di energia e che quindi si
deformano continuamente fino alla rottura. Talora le fratture, vere e proprie
sorgenti sismiche al momento della loro attivazione, servono anche da via
di risalita per i magmi.
Un terremoto può assumere
l’importanza di un problema sociale, se viene ad interessare le zone più
intensamente popolate del nostro pianeta. La pericolosità viene
espressa attraverso il concetto di rischio sismico, definito come il prodotto
tra la probabilità che un determinato evento possa verificarsi in
un assegnato intervallo di tempo ed il danno - sia economico che in vite
umane - che esso è in grado di arrecare.
Appare dunque impellente
il tentativo di rendere quanto più lievi possibile i danni prodotti
dai terremoti. Questo problema viene affrontato in due distinti indirizzi
di ricerca.
Il primo è quello
della zonazione sismica, ed ha lo scopo di prevedere le massime accelerazioni
alle quali sarà sottoposta un’area, sulla base degli studi di sismicità
storica e della geologia. Un valore di accelerazione massima riferito ad
un luogo ben preciso consente di elaborare delle norme antisismiche.
Il secondo si prefigge di
stabilire il tempo, il luogo e l’intensità di un evento attraverso
lo studio dei fenomeni premonitori. Ma l’osservazione di un particolare
insieme di indizi è solo legata al livello di probabilità
che il terremoto possa realmente avvenire: affinché questo dato
sia utilizzabile, è necessario che la probabilità di sbagliare
o mancare una previsione sia molto bassa, cosa che al momento sembra lontana.
Per tale ragione, mentre i risultati delle ricerche di zonazione sono immediatamente
applicabili, quelle sulla previsione non hanno ancora superato lo stadio
della ricerca di base.
1.1. Cosa sono e come avvengono
i terremoti
I terremoti o sismi sono
scuotimenti della superficie terrestre dovuti al rilascio di energia elastica
accumulata nelle masse rocciose soggette a sforzi deformativi; tale rilascio
è la conseguenza di meccanismi di fratturazione con movimento relativo
tra i blocchi.
Le rocce sottoposte a sforzo
si deformano. Finché il rapporto tra sforzo e deformazione risulta
costante, si parla di comportamento elastico (è rispettata la legge
di Hooke). Immediatamente all’esterno di tale intervallo, si entra nel
regime di proporzionalità non lineare e, per sforzi ancora maggiori,
la roccia perviene alla rottura. Il carico di rottura aumenta all’aumentare
della pressione ambiente e diminuisce all’aumentare della temperatura e/o
del contenuto d’acqua, se questa è libera di circolare nella roccia.
La dinamica della fratturazione
dei materiali all’interno della Terra non è ancora nota con certezza.
Le fratture, come si è potuto ricavare dallo studio dei terremoti,
si propagano nella crosta superiore con una velocità simile a quella
delle onde S (3÷3.5 km/s), anche se è stata ipotizzata una
fase preliminare a lenta propagazione, fortemente condizionata dalla presenza
di agenti chimici in grado di interagire aggressivamente con la roccia
interessata dal processo di rottura.
1.2. Dove avvengono i terremoti
I processi deformativi si
concentrano ai margini delle placche litosferiche, a diverse profondità
a seconda del contesto nel quale due placche adiacenti interagiscono tra
loro. Il 75% dell’energia sismica è stato liberato nella fascia
circumpacifica (per profondità ipocentrali minori di 70 km e nel
periodo 1904-1952), mentre il 23% è dovuto all’attività lungo
il sistema orogenico alpino-himalayano. L’esiguo 2% che rimane risulta
legato alle dorsali medio-oceaniche.
La distribuzione degli ipocentri
individua le placche in subduzione (che immergono secondo il piano di Benjoff-Wadati),
le dorsali e rivela l’instabilità delle grandi linee di sutura dovute
allo scontro tra le placche continentali e delle aree orogeniche.
1.2.1. Il modello di Scholz
(1988) per i terremoti crostali
Al di sotto delle aree continentali,
gli ipocentri dei più grandi terremoti si collocano intorno ai 10
km di profondità, laddove sembrano concentrarsi i più intensi
sforzi deformativi legati ai meccanismi della tettonica a placche. Nell’intervallo
compreso tra gli 11 e i 22 km, i processi di fratturazione sfumano gradualmente
in un flusso plastico: l’attrito che si esercita durante lo scivolamento
dei materiali rocciosi lungo i piani di faglia cessa di essere abrasivo,
per tramutarsi in adesivo. Tale variazione può essere spiegata chiamando
in causa il differente comportamento dei minerali che prevalgono nella
crosta continentale, al variare della profondità e quindi anche
della temperatura: il quarzo passa dal campo fragile a quello plastico
a 300°C (giusto a 11 km, se si ammette un gradiente geotermico normale),
mentre i feldspati si mostrano fragili fino a 450°C (circa 22 km).
Le rocce della crosta continentale entrano in un regime di plasticità
quando tutti i minerali che le compongono iniziano a comportarsi allo stesso
modo, quindi oltre i 22 km o a temperature superiori a 450°C, dove
conseguentemente gli sforzi tendono a ridursi.
1.2.2. Cenni sulla sismicità
nell’area etnea
Gli ipocentri dei terremoti
etnei si collocano generalmente a profondità molto basse e liberano
quantità modeste di energia sismica, dal momento che non vengono
mai registrati eventi con magnitudo maggiore di 5. La loro frequenza risulta
più alta rispetto alle aree adiacenti, quale indizio di una crosta
meno resistente per via dell’alto stato di fratturazione, che quindi non
consente un forte accumulo degli sforzi. Gli episodi sismici più
intensi sono in grado di arrecare danni superiori al grado VIII della scala
Mercalli-Cancani-Seaborg (MCS, una versione aggiornata della classica scala
Mercalli, sostanzialmente simile), in aree epicentrali di pochi chilometri
quadrati. Tali effetti possono essere ingigantiti dall’incidenza del creep
asismico. Si tratta di un fenomeno innescato dagli eventi sismici e che
in Sicilia è limitato al versante orientale dell’Etna: esso consiste
in uno scivolamento lento (giorni o mesi!) lungo certe strutture tettoniche
attive (le faglie e le timpe). I danni conseguenti raggiungono i più
alti gradi della scala MCS ma non vengono contemplati nelle normative territoriali
poiché comportano valori di accelerazione al suolo praticamente
nulli.